Arredi e vesti sacre, sono testimonianza di un tempo in cui la Chiesa si è servita di segni visibili, per affermare sia il suo potere che per lodare Dio. A rendere preziosi questi capi contribuiscono soprattutto le decorazioni delle stoffe operate (damaschi, broccati, lampassi) e i ricami (con sete policrome e filati d’oro) prodotti in tutta Europa, che nel tempo hanno determinato mode e stili.
Gran parte dei tessuti del museo diocesano rientrano nella categoria dei paramenti sacri, cioè le pregiate vesti e arredi liturgici presenti nelle chiese, che per secoli sono stati impropriamente collocati nella categoria delle “arti minori” ma che oggi sono testimonianza delle più sfarzose cerimonie religiose e dei culti più popolari.
Con la riforma, avviata dopo il Concilio Vaticano II, l’uso di alcuni paramenti è stato soppresso per un ritorno a forme più classiche e semplici, dove la sostanza è quella che conta e non l’apparenza.
Il codice dei colori liturgici invece, già conosciuto grazie a Innocenzo III (1160-1216) e al messale di Pio V, attualmente varia.
Le vesti sacre traggono le loro origini dall’abbigliamento laico definite sotto alcuni aspetti nell’epoca romana, subiscono nel corso dei secoli modificazioni nelle dimensioni e nell’ornamento.
Si distinguono in vesti interiori (sottovesti), come il camice, l’amitto, la cotta e il cingolo e in vesti esteriori, come la dalmatica-tunicella, la pianeta e il piviale.
Tra le vesti interiori, il camice (alba, per il suo colore bianco) simbolo di purezza è la veste di tela di lino usata dal celebrante, dal diacono e prima dell’ultima riforma anche dal suddiacono: «La sua lunghezza è a poche dita da terra e l’ampiezza deve essere tale da permettere tutti i movimenti necessari per la celebrazione». I camici negli anni sono stati impreziositi sui bordi delle maniche e all’estremità inferiore da galloni e merletti, poi fermati ai fianchi con un cingolo, «a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo».
L’amitto, un pezzo di tela di lino bianco, rettangolare lungo cm 80-90 e largo cm 60-70, è il primo indumento che il celebrante indossa sotto il camice. Nel Medioevo veniva poggiato sul capo, e solo dopo aver indossato la pianeta veniva abbassato sulle spalle come un cappuccio. Fino all’ultima riforma di papa Paolo VI, al centro dell’amitto si ricamava una croce bianca che il celebrante baciava prima di vestirsi. Insolito è il modo di indossarlo: dopo il bacio alla crocettina lo si fa cadere sulle spalle, poi viene fermato con delle fettucce che passano sotto le braccia, si incrociano sulla schiena e riportate sul petto, vengono legate. Attualmente con i Principi e Norme del Messale Romano al n. 298 è stato stabilito che l’amitto è necessario solo se il camice non copre al collo l’abito comune dei ministri.
La cotta, usata dal clero con funzione ordinaria, deriva dal camice. È come una tunica larga che scende fino alle ginocchia con ampie maniche, portata sopra l’abito talare nero, in mancanza di quest’ultimo viene sostituita dal camice lungo. Di colore bianco, il tessuto con cui viene confezionato è la tela e come per il camice anche la cotta è ornata da ampi merletti sia nella parte inferiore che sui bordi delle maniche. Pietro Rossi dichiara che le fonti più attendibili per risalire all’origine delle vesti sacre sono le opere d’arte: «la cotta appare per la prima volta nel secolo XI, prima fuori Roma, mentre fa la sua comparsa in Italia solo nel secolo XIII». All’origine lunga fino ai piedi e con maniche più strette, veniva chiamata Superpellicerum che, indossata d’inverno sulle pellicce serviva per ripararsi dal freddo dei paesi settentrionali. Con il tempo ha subito delle modifiche e adattamenti fino ad allontanarsi del tutto dal taglio originale.
Il cingolo o cintura liturgica è l’accessorio del camice fin dal primo periodo, che lo stringe in vita.
Di canapa o di cotone, solitamente di colore bianco: è tuttavia permesso anche dello stesso colore dei paramenti. Sono a forma di fascia o di cordone, a volte con grosse nappe alle sue estremità. Attualmente è usato solo se il camice non aderisce bene ai fianchi. Con il cingolo si conclude la descrizione delle vesti liturgiche interiori cioè le sottovesti dei veri e propri parati liturgici indossati dai sacerdoti nei riti più solenni.
Tra le vesti esteriori; la dalmatica, la tunicella e la pianeta se confezionate con lo stesso tessuto costituiscono un «paramento in terzo» o «terziario» ed un «paramento in quarto» se esiste anche un piviale.
Con il Concilio di Trento (1570) l’uso di questi parati è stato regolato con indicazioni specifiche da un calendario liturgico, che stabiliva l’impiego di certi indumenti, il tipo di tessuti e i colori; mentre con il Concilio Vaticano II (1962-1965) l’uso di alcune vesti e accessori è stato abolito, disperdendo e abbandonando negli armadi delle sacrestie capi preziosi e unici.
La Pianeta o casula, simbolo di carità viene indossata dal sacerdote per le celebrazioni; è il parato che più di tutti ha subito nel tempo cambiamenti radicali nella forma. La sua origine va rintracciata nel mondo greco-romano, nella cosiddetta Paenula, un ampio mantello da viaggio a forma di semicerchio cucito alle due estremità, con un cappuccio per ripararsi dalle intemperie e in alcuni casi, tagliato sul davanti fino al petto per una migliore agilità. Dal V secolo prese il nome di Planeta «che gira» e casula «piccola casa» perché ricopriva il corpo lasciando libere le mani.
Nel XII secolo da semicerchio diventa a campana (un quarto di cerchio), un modello scomodo che formava sulla nuca dei brutti rigonfiamenti e privava il sacerdote di alcuni movimenti. È tra il XII e il XIV secolo che si arriva a dare alla pianeta un aspetto totalmente diverso dalla sua forma classica molto ampia, sia per comodità ma soprattutto per il variare del gusto. Accorciata la lunghezza ai lati e ridotta su le ginocchia ha assunto cosi la forma che Pietro Rossi chiama «a chitarra»10, ma perdendo in ampiezza ha guadagnato senza dubbio in preziosità nei tessuti e nei ricami. Questo modello è uno scapolare con due lembi – quello anteriore spesso è più corto per esigenze di movimento – e con merletti e dei galloni vengono eseguiti sul davanti una croce e di dietro una colonna centrale.
La superficie posteriore della pianeta è sempre stata la parte più decorata di tutti i paramenti liturgici – un vero status symbol che «esprime» chi la indossa – in quanto la messa tridentina prevedeva di celebrare la funzione di spalle all’assemblea. Dal 1900, in prossimità della nuova Riforma Liturgica, si assiste ad un ritorno alle antiche forme che ridà alla pianeta una foggia simile a quella originale, molto ampia come un poncho dei popoli messicani. Va precisato che, se attualmente questo nuovo taglio viene definito casula è solo da un punto di vista pratico, storicamente permane il termine pianeta. La Dalmatica (dal latino Dalmacius) e la Tunicella o tonacella, sono rispettivamente l’abito del diacono e del suddiacono, fino all’ultima riforma, quando la figura di quest’ultimo venne abolita con una lettera apostolica di Papa Paolo VI. Le vesti, di forma trapezoidale e aperte ai lati con scollo ovale, sono confezionate con lo stesso tessuto della pianeta, per formare un parato completo. Nel vecchio cerimoniale romano la tonacella aveva maniche più strette e lunghe, rispetto alla dalmatica, solo nel XVI secolo vennero accorciate fino a l’omero. Oggi, adattandosi alle nuove esigenze della Chiesa, alle vesti sono state cucite le maniche e utilizzato un tessuto più morbido e comodo da indossare, visto che il ruolo del diacono è assistere il celebrante.
Tra tutti quelli già descritti, il paramento più imponente e maestoso presente tra i tesori tessili delle chiese è il Piviale, dal latino Pluvialis, antico mantello per ripararsi dalla pioggia, pluvia. Le sue origini sono simili a quelle della pianeta; lo ritroviamo sotto una nuova forma nel IX secolo come cappa monacale, con cappuccio e
sul davanti un’apertura con due ganci per chiuderlo. Solo nel X secolo è entrato a far parte degli abiti sacri, per le funzioni solenni, le processioni, le benedizioni, ecc.
A differenza della pianeta, l’unica variazione che ha subito il piviale nel tempo è nella forma del cappuccio, che perdendo la sua funzione si è trasformato in un elemento ornamentale a forma di scudo, di stoffa più rigida per permettere l’applicazione dei ricami. Un altro elemento ricamato, applicato sul piviale è lo stolone che, cadendo in due parti uguali – dalla nuca sul torace del sacerdote – si chiude con un fermaglio o fibula (ganci) o dal pectorale (sul petto), un grande fermaglio che diventerà nel tempo una necessità puramente decorativa. Di tessuti semplici e caldi le cappe dei monaci, dal 1500 un’infinità di piviali sono stati realizzati con tessuti pregiati come la seta e decorosamente ricamati con filati d’oro e d’argento. Negli ultimi tempi il piviale, accomodandosi perfettamente sulle spalle ha perso il taglio a semicerchio e lo scudo è stato eliminato per ritornare ad una forma che richiama il cappuccio.
Insieme alle vesti liturgiche vengono portate le insegne liturgiche «oggetti rappresentativi di colui che li indossa…mostrando una carica,un ministero,un ruolo all’interno della chiesa».
Chiamiamo insegne: la stola, il manipolo, la mitria, il palio e il pastorale.
Per quest’ultimo, non rientrando tra i tessili sacri mi limiterò ad una semplice descrizione.
La stola – simbolo di grazia, umiltà ed obbedienza all’autorità divina – dall’antico orarion “panno per asciugare la bocca”, è formata da una lunga banda di stoffa ed è l’insegna propria dei diaconi, dei sacerdoti e dei vescovi, ma cambia il modo di essere portata. Per i diaconi, dalla spalla sinistra scende a tracolla per essere poi annodata sul fianco destro (in modo che il braccio destro sia libero per servire); i sacerdoti tradizionalmente incrociavano la stola sul petto, mentre oggi come per i vescovi, dalla nuca lasciano scendere dritte sul davanti le due estremità. La prima stola intorno al V secolo, era larga 4-5 cm e lunga fino a raggiungere l’orlo del camice; dal XII secolo all’ultima riforma, più larga, si accorcia con le due estremità “a spatola” e soprattutto ricamata – col motivo che richiama lo stesso della pianeta – mentre oggi la ritroviamo della stessa lunghezza, ma lineare e sobria. Presenta tre croci (due alle estremità e una al centro che il sacerdote bacia prima di “pararsi”) applicate con galloni o finemente ricamate.
Il manipolo, oggi non più in uso, deriva dal “pannilino” (fazzoletto) usato dalle autorità romane. Simile alla stola ma di dimensioni più piccole è confezionato con frammenti della pianeta e richiama in modo più semplice il ricamo della stola. Posteriormente, sono fissate al centro due fettucce o cordoni per legarlo all’avambraccio sinistro del diacono durante le messe solenni, al solo scopo ornamentale.
Il velo omerale (che copre gli omeri) o continenza si fa menzionare per la prima volta nel XV Ordo Romano (sec. XV)25. Una lunga stoffa rettangolare (tessuto identico al parato liturgico) che il sacerdote porta sulle spalle durante la messa, e servendosi dei due lembi estremi avvolge i vasi sacri per non “contaminarli” con le mani durante il loro trasporto da un altare all’altro. Il velo è tuttora usato per le messe solenni e per le processioni del Corpus Domini.
La mitria o mitra simbolo di autorità sacra, della pienezza del sacerdozio e della missione di santificare è un copricapo che i vescovi portano nelle celebrazioni solenni. Originariamente a Roma intorno al X secolo era di forma conica terminante a punta, oggi invece è un copricapo a soffietto che diviso nel mezzo presenta due rigide “cornue” una anteriore e l’altra posteriore; su quest’ultima vi è l’inserimento di due vitte (infule) che cadono sulle spalle. Il tessuto adoperato è cambiato sempre nel tempo, ma i migliori esemplari appartengono al periodo barocco, di seta con ricami di sete policrome, filo d’oro e paillettes.