di Mons. Salvatore Palese Vicario Episcopale per la Cultura
È del terzo-quarto decennio del 1400 la croce astile della chiesa parrocchiale di S. Lorenzo in Barbarano del Capo, piccolo centro del Salento meridionale, che si può ammirare da tutti. Agli studiosi questa croce è nota da tempo, per le ragioni date da chi l’ha esaminata accuratamente come Giovanni Boraccesi. È d’argento e rame dorato quest’opera di un anonimo “maestro di Barbarano” e si impone nell’oreficeria dell’intera regione pugliese, non solo per i suoi tratti stilistici, ma pure per alcuni peculiari caratteri iconologici. La scheda, firmata dallo studioso, è tra le prime da lui edite nel suo splendido e importante volume dal titolo: Oreficeria sacra in Puglia tra Medioevo e Rinascimento (Claudio Grenzi Editore, Foggia 2005, p. 87). Essa è stata inserita nel sito dell’Archivio Storico Diocesano (http://www.diocesiugento.org/scheda.aspx?sez=UFF15), al fine di facilitare la conoscenza a molti e di apprezzare l’importante opera d’arte sacra di Barbarano. È un bene che deve continuare a “fruttificare” nella cultura delle popolazioni salentine, arricchendone l’identità. Insieme a tutte le altre schedate dall’autore, e riguardanti l’intera regione, costituiscono le testimonianze artistiche dei secoli passati.
Il loro significato storico acquista maggiore espressione dalle vicende contestuali che sono annotate nell’ampia introduzione al catalogo (ivi, pp. 7-66): da esse si comprende ancora una volta che le province pugliesi, dal Gargano al Capo di Leuca sono state coinvolte in processi storici più ampi e che nei primi cinque secoli del secondo millennio esse hanno registrato flussi migratori mediterranei ed europei. Dai tempi dell’organizzazione del territorio data dai re normanni sino al consolidamento assicurato da Federico II, l’imperatore che di più amò la Puglia, e proseguito da quelli angioini e aragonesi; secoli di incontri, talvolta difficili e violenti, ma soprattutto di integrazioni che hanno lasciato il segno nelle opere d’arte a noi pervenute. A questi processi complessivi parteciparono re e signori locali, vescovi e monaci, preti e frati mendicanti francescani e domenicani, gruppi e famiglie: il loro contributo fu rilevante, non soltanto nel commissionare tanta arte, ma pure nel ravvivarla nel corso dei secoli, nei piccoli paesi come nelle città che vennero a formarsi dopo il Mille, sino a tutto il sec. XVI.
Oltre a quella di Barbarano, all’anonimo maestro, è attribuita pure la croce astile della chiesa dell’Assunta di Muro Leccese, dei primi decenni del Cinquecento (ivi, pp. 98-99). Altre schede riguardano la coeva navicella portaincenso della chiesa di S. Maria delle Grazie di Tutino (ivi, p. 100), il calice della cattedrale di Ugento della metà del secolo XVI (ivi, p. 109), la croce astile della chiesa di S. Andrea apostolo di Presicce prodotta da “orafo salentino e napoletano” tra la metà e la fine del Cinquecento (ivi, p. 111) e della chiesa della Natività di Maria di Ruffano di un orafo salentino della fine del secolo (ivi, p. 113).
È utile segnalare altre opere del nostro territorio diocesano studiate dal Boraccesi: la croce astile che un maestro salentino produsse alla metà del secolo per la chiesa di S. Nicola di Salve (Id, D’argento è la Puglia. Oreficerie gotiche e tardo gotiche, Bari 2000, pp. 72-96) e la pisside di argentieri napoletani per la chiesa di S. Ippazio di Tiggiano, tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del secolo seguente (id, Note sui calici della mostra “Redempti pretioso sanguine”, in appendice a La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, a cura di S. CORTESE, Domus Dei, Ugento 2015, p. 166.) finalmente edite. Rimangono ancora non studiate le croci astili dell’allora cattedrale di Alessano, da me segnalate decenni orsono (S. PALESE, Alessano e la sua Chiesa maggiore, Congedo, Galatina 1975, tav. n. 32, 36 e 37).
Tutte queste opere di arte religiosa, come tanta altra suppellettile, sono legate all’attività cultuale delle chiese menzionate. Sono i segni della religiosità del clero e delle popolazioni in precisi territori: la testimoniano ancora nelle forme che essi recepirono e fecero proprie. In quasi tutti i casi sono le uniche testimonianze della suppellettile delle chiese di quei secoli. Quelle antiche croci astili guidavano le processioni oranti del clero e dei fedeli dentro e fuori le chiese di quei paeselli ed aprivano gli accompagnamenti dei defunti alle loro sepolture anche nei camposanti quando vennero organizzati ovunque nel corso dell’Ottocento.
Ci sembra, ancora, che i repertori iconografici di queste opere meritino ulteriori approfondimenti, condotti con delicatezza e appropriata metodologia. Ad esempio, ai piedi del Cristo crocefisso della Croce di Barbarano c’è la Maddalena che si scioglie in pianto, come la chioma che per intero la ricopre e la sua immagine si risolve in un fremito. È una bellissima visione che Boraccesi ha posto in copertina al suo volume. Ancora, sotto il crocifisso di quella di Presicce, è raffigurato il divino pellicano, che si sbrana per nutrire i suoi piccoli: è evidente il significato dell’opera del divino redentore; per i secoli dell’età moderna e oltre, si vedrà ripetuto sulle porticine argentee dei tabernacoli eucaristici degli altari maggiori delle chiese. Sono semplici accenni alle evoluzioni della pietà cristiana nel corso del secondo millennio, di fronte alla morte di Gesù; sviluppi che fanno parte della storia dei nostri territori e, perciò, storia anch’essa da ricostruire con rigore scientifico.
Giovanni Boraccesi ha dato il suo contributo con il “restauro della memoria” oltre quella, in alcuni casi, della realtà fisica di queste opere di oreficeria sacra. Come sempre si tratta del primo restauro necessario a garantire la conservazione dell’opera, proprio nelle comunità cristiane, come beni di famiglia.
E se per secoli vescovi e principi, signori del luogo e preti, frati e sodalizi confraternali le hanno custo dite nelle loro chiese senza conoscerle ed apprezzarle, ora quelle opere le comunità cristiane possono valorizzarle per alimentarsi della testimonianza antica e per continuare la loro missione negli odierni contesti sociali e culturali, ben diversi da quelli in cui le opere furono commissionate e prodotte.
Infatti, quella storia rappresentata dalle nostre croci astili salentine, non è finita agli inizi del terzo millennio cristiano, quelle “icone” dicono la divina promessa di Gesù (Chi crede in me vivrà per sempre com’è detto nel Vangelo di Giovanni 11,25) e possono infondere speranza, giacché l’amore di Dio spinge ad andare oltre il peccato e la morte.
Ugento, 25 aprile 2017
Mons. Salvatore Palese Vicario Episcopale per la Cultura