La scultura nel territorio Diocesano

Pittori e dipinti su tela, tra il XVII e il XIX secolo, a Ugento
2 Febbraio 2017
Riconsiderazione di alcuni punzoni rilevati sugli argenti del museo Diocesano di Ugento
2 Febbraio 2017

Le poche opere scultoree custodite nel Museo diocesano, nelle diverse componenti materiche, rappresentano manufatti che si datano dal XVI secolo sino al XIX secolo, con una larga presenza della pietra leccese rispetto gli altri elementi. Il Fonte battesimale di Raimondo Del Balzo (regnante dal 1485 al 1507) rappresenta l’opera più antica presente nel contenitore museale e una delle non numerose sculture in Terra d’Otranto prima del Concilio di Trento, fase che rimane in parte misteriosa in quanto poche sono le testimonianze superstiti a causa della pressocchè sistematica ricostruzione delle chiese avviata nel secondo Cinquecento e proseguita senza sosta fino alla fine del Settecento; tra l’altro, quelle poche superstiti, non forniscono un quadro omogeneo, perché in bilico tra arcaismi a volte anacronistici o influssi eterogenei. Nonostante ciò, potremmo ipotizzare che dalla suppellettile sacra ugentina possa aver avuto inizio una fortunata stagione artistica nel XVI secolo, annoverando nel filone i fonti nelle chiese madri di Tricase (opera del 1547 eseguita dal tricasino Domenico Musca), Tiggiano (1585), Gagliano del Capo (oggi nell’adiacente palazzo Ciardo), Torrepaduli, Castrignano del Capo (inizi ‘600); allo stesso stile sarebbe riconducibile anche il fonte battesimale di Gemini, seppur di datazione controversa (XIX secolo?).

Legata alla funzionalità ed economicità, la questione della matericità trova il suo culmine nel Cinquecento, secolo chiave non solo per le gerarchizzazioni tra le tecniche artistiche, ma anche per le influenti istruzioni borromiane circa l’architettura e l’arredo, di frequente richiamate nelle schede del presente catalogo. Il Vasari classifica le sculture e da valore al materiale nobile come argento e marmo, svalutando la modellazione e declassando il legno e il materiale umile.

Prosegue pertanto la produzione in pietra. Gli stemmi esposti nel Museo e provenienti dalla chiesa dei Francescani Neri di Specchia sono databili al secondo quarto del sec. XVII, fase che risulta essere l’apogeo dell’arte salentina e nel territorio diocesano, in particolare per gli esecutori di portali e altari. L’opera va ad incunearsi ad un periodo fecondo per gli artisti locali, a causa della crisi di importazione di opere napoletane.

Se di Giovanni Donato Chiarello (attivo dal 1629 al 1660) abbiamo l’attribuzione per la statua di Sant’Antonio nella omonima chiesa confraternale di Ugento ben più presente è l’altro copertinese Ambrogio Martinelli (1616-1684): tra le sue opere vanno annoverati gli altari di Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Conventuali (1652, fig. 3), la statua di Sant’Antonio di Padova nella chiesa madre di Taurisano, così come a lui va attribuita la statua di San Vito un tempo posta nella cappella del castello di Corsano, poi trasferita nella chiesa dei Santi Medici 4 e oggi nella chiesa di Santa Sofia.

Ma per il XVII secolo a farla da padrone, in territorio diocesano, è sicuramente Placido Buffelli. Lo scultore alessanese (1635-1693) ha eseguito opere plasmate da una finezza esecutiva dove i santi e angeli sono caratterizzati da delicati lineamenti e dolci sguardi. Di Buffelli abbiamo ad Alessano alcune opere come l’Epigrafe del vescovo Granafei del 1656, già nella cattedrale di Alessano; sempre ad Alessano, a Buffelli va attribuita l’Epigrafe del vescovo Tontoli (1671) nella chiesa di Sant’Antonio, mentre l’anno precedente ha eseguito lo splendido Altare nella chiesa del Crocefisso di Boceto (fig. 5), tra Alessano e Specchia. Come rimarca Tanisi, a lui vanno attribuite altre opere in territorio diocesano come le sculture, a ridosso del presbiterio, di San Pietro e San Paolo nella chiesa madre di Acquarica del Capo, lo Stemma dei Capece sull’ingresso principale della chiesa Santa Maria di Leuca del Belvedere in Barbarano, l’Altare maggiore nella cripta del Gonfalone di Sant’Eufemia di Tricase, l’Altare del Crocefisso e i due Angeli inginocchiati posti ai lati dell’altare settecentesco dell’Immacolata nella chiesa madre di Salve, l’Altare del Carmine nel transetto della chiesa dell’Assunta di Lucugnano assieme alle tre statue di Sant’Antonio di Padova, Assunta e San Vito nel presbiterio . La sua fama in patria sarà tale che si attribuirà la licenza di firmarsi quale “Fidia redivivo” sulla base della statua di San Filippo nella chiesa di San Matteo a Lecce nel 1692 (HAC DUODENA/VIRUM SIMULACRA/IN SEDE REFULGET/CUIS OPUS PHIDIAE/VIVIT HIC/IN PLACIDO).

Nel museo sono inoltre custodite due statue in pietra leccese, databili agli inizi del XVIII secolo: San Liborio, statuetta da nicchia proveniente dalla chiesa madre di Depressa, e la Madonna di Leuca. Il secolo conoscerà una nuova stagione di artisti locali, tra i quali spiccheranno altri alessanesi quali il progettista Felice De Palma (1720-1800) ed Emanuele Orfano (1753-1842), quest’ultimo la personalità più ragguardevole dell’ultima fase del barocco salentino e che ha eseguito la Balaustra per la matrice di Tricase (1784) nel sacro edificio realizzato proprio dal De Palma.

Benchè in numero decisamente inferiore, importanti risultano essere le opere lignee nel territorio diocesano, a causa della sua facilità di trasporto ed economicità, nonostante il già citato concetto vasariano della scarsa considerazione dei manufatti in materiale più povero. Questa gerarchia verrà stravolta, soprattutto nel Settecento, a favore della committenza e da altre influenze tra cui quella devozionale che favorirà la materia “economica”, sicuramente meno prezioso, ma degno di fede e forte testimonianza di arte popolare e che troverà largo sfogo in alcune opere confraternali; inoltre, la povertà del materiale verrà spesso riscattata dal rivestimento cromatico grazie all’utilizzo dell’ingessatura al fine di sostenere meglio il colore, più confacente anche ad un aspetto di “veridicità” che materiali più nobili non hanno.

Già nel ‘600 leccese, una scultura quando non è lapidea risulta essere lignea, spesso riproduzione di modelli di altro materiale più pregiato: in particolare già dal secondo decennio del Seicento ci fu una prima ondata di opere lignee di provenienza napoletana con forte immissione di busti-reliquiari cui seguì una risposta locale con i già citati artisti, ma anche con busti lapidei di imitazione policromati e dal colore oggi poco presente in quanto il legno è più adatto ad essere colorato e dorato, come attesta il primo altare a sinistra nella chiesa del Gesù a Lecce .

Per le due opere lignee custodite nel museo ugentino, proprio la Pietà andrebbe a posizionarsi nel XVII secolo, mentre il San Pasquale Baylon si data al secolo successivo. La prima opera in particolare, probabilmente non attribuibile a Vespasiano Genuino ma ad un ignoto artista della seconda metà del XVII secolo, va a collocarsi in un periodo felice della scultura dipinta figlia dell’efficacia devozionale delle statue colorate che le province continuano a chiedere senza sosta, anche dopo l’estinzione delle dinastie degli scultori napoletani .

Ma la produzione lignea aveva già sviluppato una decisa sensibilità grazie ad un artista molto attivo anche in ambito diocesano, ovvero l’intagliatore e scultore Vespasiano Genuino (1552-1637?), le cui opere valicano i confini della Terra di Bari. L’artista gallipolino, di origine campana, guarda al michelangiolismo di Marco Pino e al repertorio spagnolo (incisioni e sculture) e ha lasciato diverse testimonianze in diocesi, come il Cristo alla colonna di Salve (attribuita), oggi custodita nella chiesa di San Nicola Magno di Salve; la scultura è in pietra leccese, databile tra il 1600 e il 1610, e si basa sulla nota iconografia della colonna della flagellazione conservata in Santa Prassede a Roma.

Casciaro confronta tale opera con quella custodita sull’altare della Passione nella matrice di Gagliano del Capo: seppur molto simile, in realtà emerge la familiarità del Genuino con il legno piuttosto che con la pietra. Sullo stesso altare settecentesco di Gagliano inoltre, sono del Genuino l’intero complesso scultoreo ligneo che comprende il Crocefisso e l’Ecce Homo (fig. 5), secondo De Castris da datarsi tra il 1618 e il 1628. A Salve inoltre, è custodito un Crocefisso ligneo nella chiesa madre, collocato in una nicchia. Per quanto riguarda l’approccio stilistico al gallipolino, Casciaro rimarca un progressivo irrobustirsi dell’anatomia e un accentuarsi dei risalti dei singoli muscoli, sensibile nelle opere che si possono datare dal secondo decennio del Seicento in poi, nonostante la sostanziale continuità e ripetitività quasi seriale nella resa del soggetto. Circa l’eredità del Genuino, rimase una fiorente scuola del legno che si intrecciò con le maestranze francescane e che ebbe il suo apogeo tra la seconda metà del Seicento e inizi Settecento con le figure di Fra Giuseppe da Soleto e Francesco Maria da Gallipoli.

La seconda grande ondata di opere provenienti da Napoli principia con il 1689 precisamente grazie all’arrivo della statua dell’Immacolata di Nicola Fumo (Saragnano Salerno 1647 – Napoli 1725) per il duomo di Lecce ed è caratterizzata da una profonda capillarità come attestano le diverse opere anche in diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Una prima statua lignea interessante risulta essere il San Michele Arcangelo di Castrignano del Capo (fig. 6). Datata al 1707, la statua è in legno scolpito, dipinto e dorato e presenta il tipico slancio e leggerezza della fase culminante della carriera di Nicola Fumo. Casciaro risalta l’impressionante diffusione capillare delle sue opere, come se fama dello scultore non dovesse incontrare ostacoli, essendo le sue opere abbastanza moderne per la committenza esigente di Madrid e al tempo stesso adatte alla devozione della piccola chiesa di Castrignano.

In questa temperie vanno annoverate altre opere, come la statua lignea dell’Assunta, nella chiesa Sant’Andrea Apostolo di Presicce. La Figura ha il manto che non scende dalle spalle, ma si avvolge a vortice intorno ai fianchi ed è riconducibile ad uno scultore napoletano di metà XVIII secolo, nel solco del ricco filone della scultura napoletana di Fumo e Patalano .

Un’altra statua lignea notevole in territorio diocesano potrebbe essere l’Immacolata nella chiesa madre di Montesano del 1737 (fig. 7), opera di Pietro Patalano (Ischia? 1664-post 1737), paternità accertata grazie ad un documento notarile, fratello del più noto Gaetano.
Contestualmente, di fronte alla committenza più “aulica”, non termina comunque l’afflusso delle statue argentee come quelle di Andrea De Blasio (documentato 1698-1753) o di Sebastiano Ajello (Napoli 1731-post 1806) con la statua di Sant’Antonio di Padova nella matrice di Ruffano.
Un ultimo aspetto della polimatericità della scultura, anche dal punto di vista cronologico, va declinato con la cartapesta, presente nel museo con la statuetta di San Francesco Saverio, databile alla fine del XIX secolo; sarà infatti questo il secolo che sancirà il ruolo di Lecce quale capitale della cartapesta. Sperimentata probabilmente con tecniche a stampo nella Toscana del XV secolo (Figline Valdarno), fu probabilmente Mauro Manieri (Lecce 1687-1743/44) ad aprire a Lecce la fortunata stagione della cartapesta con il Soffitto ad imitazione del lacunare nella chiesa di santa Chiara (1738). Legata ad una componente della committenza devozionale quale era diventata quella più religiosa e più pratica per le processioni, in particolare quelle confraternali, le opere dei mastri cartapestari arrivavano da Napoli inizialmente nelle dimore private e poi nelle chiese, presentando le caratteristiche di versatilità, leggerezza, seppur in presenza del costo della carta non proprio basso.

Per la cattedrale ugentina, l’avvento della cartapesta sarà riscontrabile nel giro di pochi decenni con lo stesso soggetto, San Vincenzo di Saragozza, anche se con destinazione d’uso differente: sotto monsignor Panzini verrà realizzato il mezzo busto ligneo del 1796 (fig. 8), mentre agli inizi del XIX secolo risale la statua in cartapesta nel transetto (fig. 9), sotto l’episcopato di De Mestria (1828-1836).

Per quanto spesso prodotti di bottega, le sculture polimateriche presenti nel museo e in genere nel territorio, meritano attenzione purtroppo ancora oggi riservata agli addetti ai lavori: coglierne il valore attraverso la riabilitazione culturale sarà la sfida del museo diocesano.