Le poche opere scultoree custodite nel Museo diocesano, nelle diverse componenti materiche, rappresentano manufatti che si datano dal XVI secolo sino al XIX secolo, con una larga presenza della pietra leccese rispetto gli altri elementi. Il Fonte battesimale di Raimondo Del Balzo (regnante dal 1485 al 1507) rappresenta l’opera più antica presente nel contenitore museale e una delle non numerose sculture in Terra d’Otranto prima del Concilio di Trento, fase che rimane in parte misteriosa in quanto poche sono le testimonianze superstiti a causa della pressocchè sistematica ricostruzione delle chiese avviata nel secondo Cinquecento e proseguita senza sosta fino alla fine del Settecento; tra l’altro, quelle poche superstiti, non forniscono un quadro omogeneo, perché in bilico tra arcaismi a volte anacronistici o influssi eterogenei. Nonostante ciò, potremmo ipotizzare che dalla suppellettile sacra ugentina possa aver avuto inizio una fortunata stagione artistica nel XVI secolo, annoverando nel filone i fonti nelle chiese madri di Tricase (opera del 1547 eseguita dal tricasino Domenico Musca), Tiggiano (1585), Gagliano del Capo (oggi nell’adiacente palazzo Ciardo), Torrepaduli, Castrignano del Capo (inizi ‘600); allo stesso stile sarebbe riconducibile anche il fonte battesimale di Gemini, seppur di datazione controversa (XIX secolo?).
Legata alla funzionalità ed economicità, la questione della matericità trova il suo culmine nel Cinquecento, secolo chiave non solo per le gerarchizzazioni tra le tecniche artistiche, ma anche per le influenti istruzioni borromiane circa l’architettura e l’arredo, di frequente richiamate nelle schede del presente catalogo. Il Vasari classifica le sculture e da valore al materiale nobile come argento e marmo, svalutando la modellazione e declassando il legno e il materiale umile.
Prosegue pertanto la produzione in pietra. Gli stemmi esposti nel Museo e provenienti dalla chiesa dei Francescani Neri di Specchia sono databili al secondo quarto del sec. XVII, fase che risulta essere l’apogeo dell’arte salentina e nel territorio diocesano, in particolare per gli esecutori di portali e altari. L’opera va ad incunearsi ad un periodo fecondo per gli artisti locali, a causa della crisi di importazione di opere napoletane.
Se di Giovanni Donato Chiarello (attivo dal 1629 al 1660) abbiamo l’attribuzione per la statua di Sant’Antonio nella omonima chiesa confraternale di Ugento ben più presente è l’altro copertinese Ambrogio Martinelli (1616-1684): tra le sue opere vanno annoverati gli altari di Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Conventuali (1652, fig. 3), la statua di Sant’Antonio di Padova nella chiesa madre di Taurisano, così come a lui va attribuita la statua di San Vito un tempo posta nella cappella del castello di Corsano, poi trasferita nella chiesa dei Santi Medici 4 e oggi nella chiesa di Santa Sofia.
Ma per il XVII secolo a farla da padrone, in territorio diocesano, è sicuramente Placido Buffelli. Lo scultore alessanese (1635-1693) ha eseguito opere plasmate da una finezza esecutiva dove i santi e angeli sono caratterizzati da delicati lineamenti e dolci sguardi. Di Buffelli abbiamo ad Alessano alcune opere come l’Epigrafe del vescovo Granafei del 1656, già nella cattedrale di Alessano; sempre ad Alessano, a Buffelli va attribuita l’Epigrafe del vescovo Tontoli (1671) nella chiesa di Sant’Antonio, mentre l’anno precedente ha eseguito lo splendido Altare nella chiesa del Crocefisso di Boceto (fig. 5), tra Alessano e Specchia. Come rimarca Tanisi, a lui vanno attribuite altre opere in territorio diocesano come le sculture, a ridosso del presbiterio, di San Pietro e San Paolo nella chiesa madre di Acquarica del Capo, lo Stemma dei Capece sull’ingresso principale della chiesa Santa Maria di Leuca del Belvedere in Barbarano, l’Altare maggiore nella cripta del Gonfalone di Sant’Eufemia di Tricase, l’Altare del Crocefisso e i due Angeli inginocchiati posti ai lati dell’altare settecentesco dell’Immacolata nella chiesa madre di Salve, l’Altare del Carmine nel transetto della chiesa dell’Assunta di Lucugnano assieme alle tre statue di Sant’Antonio di Padova, Assunta e San Vito nel presbiterio . La sua fama in patria sarà tale che si attribuirà la licenza di firmarsi quale “Fidia redivivo” sulla base della statua di San Filippo nella chiesa di San Matteo a Lecce nel 1692 (HAC DUODENA/VIRUM SIMULACRA/IN SEDE REFULGET/CUIS OPUS PHIDIAE/VIVIT HIC/IN PLACIDO).
Nel museo sono inoltre custodite due statue in pietra leccese, databili agli inizi del XVIII secolo: San Liborio, statuetta da nicchia proveniente dalla chiesa madre di Depressa, e la Madonna di Leuca. Il secolo conoscerà una nuova stagione di artisti locali, tra i quali spiccheranno altri alessanesi quali il progettista Felice De Palma (1720-1800) ed Emanuele Orfano (1753-1842), quest’ultimo la personalità più ragguardevole dell’ultima fase del barocco salentino e che ha eseguito la Balaustra per la matrice di Tricase (1784) nel sacro edificio realizzato proprio dal De Palma.
Benchè in numero decisamente inferiore, importanti risultano essere le opere lignee nel territorio diocesano, a causa della sua facilità di trasporto ed economicità, nonostante il già citato concetto vasariano della scarsa considerazione dei manufatti in materiale più povero. Questa gerarchia verrà stravolta, soprattutto nel Settecento, a favore della committenza e da altre influenze tra cui quella devozionale che favorirà la materia “economica”, sicuramente meno prezioso, ma degno di fede e forte testimonianza di arte popolare e che troverà largo sfogo in alcune opere confraternali; inoltre, la povertà del materiale verrà spesso riscattata dal rivestimento cromatico grazie all’utilizzo dell’ingessatura al fine di sostenere meglio il colore, più confacente anche ad un aspetto di “veridicità” che materiali più nobili non hanno.